Vi siete mai chiesti perché in genere quando le persone vanno dalla parrucchiera, dall'estetista o dal fisioterapista cominciano a parlare di cose che non direbbero nemmeno in famiglia o al loro più caro amico? Siamo spesso del tutto inconsapevoli di alcuni aspetti che guidano i comportamenti, anche comunicativi, della nostra vita quotidiana. In questo articolo voglio esplorare un argomento che da un po di tempo mi incuriosisce sia dal punto di vista professionale che da persona da sempre interessata agli aspetti sociali del nostro vivere. Lo scritto non ha un taglio scientifico ma spero ugualmente di proporre un argomento interessante stimolando un nuovo punto di vista su alcuni comportamenti della nostra vita quotidiana. E’ esperienza comune che molte persone parlano di molti aspetti della loro vita privata dal parrucchiere, dalle estetiste o dai fisioterapisti, ad esempio, con molta più facilità rispetto altri contesti sociali. Mi sono chiesto molte volte cos’hanno in comune queste professioni che condividono il fatto di avere dei clienti che durante il servizio che propongono (taglio capelli, trattamento estetico o un massaggio…) si “aprono” e parlano spontaneamente dei loro fatti personali, delle loro scelte, opinioni politiche, della loro visione della vita malgrado nessuno abbia loro chiesto esplicitamente di farlo. E’ vero certo che non tutte le persone hanno lo stesso comportamento ma è esperienza comune condivisa da queste categorie di professionisti constatare questo tipo di reazione da parte della maggioranza dei loro clienti. Sebbene non dispongo di dati statistici alla mano trovo interessante esplorare questo fenomeno che mi piacerebbe verificare scientificamente. Secondo me ci sono degli aspetti molto curiosi ed interessanti da studiare nella dinamica tra il professionista e il cliente di queste professioni perché gettano luce su alcuni meccanismi della comunicazione che viviamo quotidianamente ma di cui spesso non siamo affatto consapevoli. Le professioni elencate nel titolo dell’articolo hanno in comune il fatto che il cliente si trova in uno stato di rilassamento; “stacca la spina”, per così dire, dallo stress che la vita quotidiana gli impone mentre la situazione presente che sta vivendo lo obbliga in qualche modo a non usare la “marcia” più alta che possiede richiedendogli di inserire la “folle”. Nel caso della parrucchiera, dell’estetista e del fisioterapista si tratta addirittura di uno dei pochissimi momenti in cui le donne in particolare hanno un momento dedicato esclusivamente a loro stesse dove si possono rilassare (forse perché non è fisicamente possibile fare altre cose, ne usare il cellulare!). E’ probabile che l’aspetto di parlare di se stessi non è un qualcosa che viene da subito effettuato dal primo incontro con il professionista ma il condividere più volte un’esperienza di rilassamento con la stessa persona in un contesto che si può considerare personale, se non intimo, aiuta a creare quel rapporto di apertura che nella società di oggigiorno è confinato a questi momenti così particolari e in qualche modo preziosi. Parlo di contesto personale, se non intimo, perché in tutte le professioni citate il cliente ha un contatto fisico con il professionista che “invade” i limiti convenzionali del nostro spazio privato: i parrucchieri durante il loro lavoro toccano la testa e i capelli dei clienti, le estetiste hanno a che fare con il corpo di coloro che chiedono di farsi i trattamenti estetici e i fisioterapisti usano il contatto pieno delle loro mani per indurre benessere nei loro clienti. Questo contatto fisico personale con un estraneo è un fattore chiave di questa dinamica che ci porta ad “aprirci” all’altro perché in nessun’altro contesto sociale abbiamo la condivisione di uno spazio così privato con una persona sconosciuta. Il fatto poi che si condivida questo contesto personale con un altro essere umano che non chiede nulla se non quello di svolgere il proprio lavoro esclusivamente manuale non richiedendo alcun dialogo, se non le solite frasi di rito, è proprio la condizione che induce nel tempo a parlare di se stessi. Il fisioterapista, l’estetista o il parrucchiere per fare il loro lavoro non hanno bisogno di chiedere informazioni o altro (se non, naturalmente, nella fase che anticipa l’esecuzione del lavoro stesso) e questo genera automaticamente un qualcosa di talmente raro che le prime volte che lo si prova può essere vissuto quasi con imbarazzo: non ci viene chiesto nulla tranne lo stare fermi, l’unico requisito richiesto è quello di essere presenti. L’avere a che fare con un altro essere umano (anche sconosciuto) con cui condividiamo intenzionalmente uno spazio privato se non intimo porta inizialmente all'imbarazzo (come può essere il caso dell’effetto ascensore dove per superare l’imbarazzo ci si trova a fissare il display indicatore dei piani o l’interessante disegno del soffitto o delle pareti…) ma nel contesto di una richiesta pattuita (taglio capelli, massaggio, ecc.) e ripetuta che non richiede di parlare ma di essere solo “presente fisicamente” assume un significato diverso, che nel tempo fortifica la convinzione di non essere giudicati dall’ “altro”. Del resto chi sta lavorando non ha come scopo quello di conoscere meglio il cliente ma concentrarsi nell'esecuzione della propria performance lavorativa. Parlando con molti professionisti del settore, mi sono reso conto che molto spesso non solo non desiderano ascoltare i racconti personali dei clienti ma preferirebbero non sentirli perché avendo un frequente e prolungato contatto con tante persone risulta stressante ascoltare in continuazione tutte le vicende dei clienti. I professionisti questo effetto stressante lo conoscono bene e poiché può intaccare la qualità del servizio offerto, affinano nel tempo la capacità di eseguire tecnicamente bene il loro lavoro dando quel “minimo” di attenzione al cliente tale per cui essa/o ha comunque la percezione di essere ascoltato. E’ come se il professionista mettesse “il pilota automatico” nel compito di ascoltatore e fosse concentrato nel proprio lavoro professionale. Questa strategia cognitiva viene utilizzata da tutti i professionisti (più o meno coscientemente) ma non deve essere assolutamente vista come mancanza di rispetto nei confronti del cliente, tutt'altro. Per eseguire un buon lavoro il professionista deve rimanere concentrato nel suo compito e non lasciarsi distrarre dal racconto dell’utente. Se ci pensiamo bene chi di noi desidererebbe svolgere il proprio lavoro mentre una persona ci racconta faccende private non richieste? Forse una delle poche eccezioni a questa regola è la professione dello psicologo ma solo perché in questo caso le informazioni fornite dalla persona sono veramente funzionali allo svolgimento del lavoro stesso. Per la parrucchiera, l’estetista o il fisioterapista, il cliente che ha voglia di raccontarsi è un fattore ulteriore da gestire al fine di fare un buon lavoro, ecco perché adottano una strategia cognitiva di seguire il racconto del cliente con un coinvolgimento limitato. Le energie, anche quelle psicologiche (cognitive ed emotive) devono essere impegnate nel compito con la priorità più alta: l’esecuzione del lavoro professionale per cui si è pagati e per cui il cliente sarà soddisfatto alla fine del servizio. Prova ne è che il cliente ritorna se è soddisfatto del servizio ricevuto non certo solamente se si ritiene ascoltato pur avendo ricevuto un servizio scadente. Paradossalmente credo che sia proprio questa sorta di “programma automatico” adottato dal professionista ad essere motivo di apertura da parte del cliente. Non trattandosi quindi di un dialogo attivo e incorniciato dalle solite richieste comunicative come in genere accade, il cliente è portato a confidarsi, a raccontare se stesso, la propria storia, le proprie scelte di vita. La strategia utilizzata dal professionista per essere più concentrato nell'esecuzione del proprio lavoro induce indirettamente all'apertura il cliente che non vede generare da parte dell’interlocutore le solite reazioni giudicanti che è abituato a ricevere magari anche dal familiare o dall'amico. Mi piace usare il termine paradossale perché, anche se non ci sono studi scientifici in merito, immagino che sia proprio il fatto di ascoltare solo parzialmente i discorsi dei clienti a generare in loro questo senso profondo di sentirsi capiti, compresi ed ascoltati. Naturalmente non sto dicendo che per essere ascoltati o compresi occorre che l’interlocutore sia “distratto” mentalmente da un qualcosa che ritiene più importante in quel momento ma che nel contesto del rapporto professionista/cliente oggetto di questo articolo non si innescano quelle “barriere” comunicative che normalmente esistono quando parliamo anche con le persone che vogliono sinceramente aiutarci ma non possiedono le capacità tecniche di farlo (questa la differenza tra loro e i professionisti del settore psicologico). Un riscontro indiretto di questo mio modo di vedere il fenomeno esiste nelle tecniche psicologiche della scuola psicologica rogersiana, detta anche “umanistica” o “centrata sul cliente” dove attraverso un particolare training si insegna al professionista a comunicare con il cliente in una maniera che non è valutativa, interpretativa, indagatoria, consolatoria o che propone una soluzione preconfezionata. Riassumendo abbiamo la tendenza a parlare di noi stessi quando siamo rilassati, all’interno di un contesto accogliente e personale e non ci sentiamo giudicati dalla persona con cui stiamo comunicando. Chissà se Carl Rogers, padre fondatore dell’approccio “centrato sul cliente”, si sia ispirato anche dal lavoro dalle parrucchiere per elaborare le sue tecniche psicologiche… Autore: Dr. Massimo Agnoletti, visita il suo sito Fonte
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